ATTENZIONE: SPOILER SUL FILM 1917
Ho sempre trovato la prima guerra mondiale un evento storico e un contesto narrativo particolarmente interessante, per certi versi anche più della Seconda.
Si tratta di una guerra a metà tra il vetusto e il moderno, iniziata con cavalli e dirigibili e conclusa con carri armati e aerei; con limiti tecnologici e culturali che oggi sembrano lontani anni luce dal nostro tempo e che per questo la rendono estremamente affascinante sul piano narrativo.
Tutto il contesto e il modo in cui è stata vissuta la grande guerra, oggi ci risulta quasi arcaico e difficilmente immaginabile, al punto che non ce ne rendiamo nemmeno totalmente conto. Provate anche solo a disegnare nella vostra mente l’immagine dei bombardamenti sulla Londra post vittoriana da parte degli Zeppelin tedeschi, e ditemi che questa scena non riesce a smuovere la vostra fantasia con la sua assurdità.
Purtroppo però, come ben sappiamo, queste stesse caratteristiche rendono la prima guerra mondiale anche uno degli eventi più cruenti e terribili della nostra storia. La violenza delle sue battaglie fu viscerale, pregna di morti lente e dolorose, mutilamenti e spettacoli così raccapriccianti da segnare per sempre la mente dei soldati e dei civili che hanno avuto la sfortuna di viverla in prima persona.
La gran parte dei sopravvissuti, anche a guerra finita, non riuscirono mai più a tornare a una vita normale, sconvolti dagli anni vissuti al fronte e dalle cicatrici, sia fisiche che mentali, che si portarono dietro fino alla morte.
Parliamo in buona parte di ragazzi giovanissimi, addirittura sedicenni, che furono letteralmente mandati al macello, inconsapevoli dell’inferno che avrebbero trovato nella loro ricerca di gloria.
Ed è proprio da questi presupposti che Sam Mendes è partito per scrivere la storia di 1917, una finestra sul passato, in grado di mostrarci uno spaccato di assurda vita quotidiana di quegli anni attraverso gli occhi di due soldati poco più che ventenni. Un’opera che riesce a catapultarci nella vita di trincea mostrandocene ogni deteriorante dettaglio, dalla stanchezza opprimente negli occhi dei soldati alle condizioni igieniche a dir poco inquietanti, passando per stress, tristezza e rabbia malcelata, il tutto mostrato con tanta cura nei dettagli da farci sentire davvero lì, al fianco dei protagonisti, soffrendo e tremando con loro ogni singolo minuto.
Il viaggio intrapreso da Will e Tom diventa una scusa per farci da guida in una realtà inconcepibile per la nostra quotidianità, attraverso un mondo in cui la morte permea ogni cosa, inondando di cadaveri ogni metro percorso dai due ragazzi.
A colpire di più però, grazie a uno storytelling accurato e intenso, è proprio il modo in cui i protagonisti e chiunque li circondi vivono questa realtà oscena, nella più totale naturalezza, come se tutto fosse normale.
I personaggi si muovono tra centinaia e centinaia di cadaveri nella più totale indifferenza, arrivando addirittura a camminarci letteralmente sopra senza accorgersene nemmeno, se non dopo essere stati sgridati dai propri compagni. Addirittura ci sono momenti in cui i morti vengono usati a mo’ di segnali stradali per indicarsi a vicenda i percorsi tra le trincee.
Veniamo messi di fronte a una normalizzazione della morte che rasenta l’inquietante, con una violenza psicologica che colpisce lo spettatore scuotendolo come un’esplosione silenziosa, senza mai soffermarcisi sopra per più di qualche secondo, ma anche senza mai abbandonare la scena.
Siamo ben lontani dalla violenza esplicita e fisica di film come Fury, ad esempio, in cui quest’ultima veniva quasi glorificata nella sua crudeltà e ingiustizia. In 1917 invece ci viene raccontata con molto più tatto, colpendoci paradossalmente di più proprio per questo. Sam Mendes non si sofferma quasi mai sulle morti dei personaggi, trattandole con la stessa naturalezza con cui fanno i protagonisti, scuotendoci ancora di più e rendendo così particolarmente intensa l’unica volta in cui decide di fare il contrario.
Si tratta di una violenza implicita nell’aria, che ti entra dentro subdolamente facendosi accettare con l’inganno, per poi abbandonarci a noi stessi feriti nell’animo e scossi nella coscienza.
A intensificare questa sensazione di ineluttabilità poi, contribuiscono i dialoghi. Ogni parola è una sentenza che porta con sé il peso dell’accettazione di una morte imminente e inevitabile. Tutti si comportano e parlano come se non ci fosse nessuna certezza, se non che in un modo o nell’altro loro o i loro compagni moriranno di lì a breve. Nelle loro parole non c’è solo rassegnazione, ma anche un triste cinismo che li porta a parlare dei compagni o degli avversari morti come se fosse figure inanimate, dimenticando o volendo dimenticare che prima erano persone, con un nome, una storia e dei cari a cui volevano bene. Siamo di fronte alla più totale disumanizzazione dell’individuo.
Personalmente però, credo che sia nel finale che questa normalizzazione dell’assurdo raggiunge il suo apice, prendendoci ancora una volta in contropiede, superando addirittura la sensazione di straniamento sentita nelle due ore precedenti.
Il viaggio di Will è una vera e propria impresa, piena di epicità e dramma. Ogni suo passo e una sofferenza che gli richiede come prezzo una fibra della sua anima, il tutto in nome di una missione che ritiene di vitale importanza, ma che una volta compiuta si rivela una vittoria temporanea e irrisoria.
Nonostante abbia appena salvato migliaia di soldati da una trappola tedesca, tutto ciò che trova alla fine del tunnel è la consapevolezza di aver semplicemente rimandato l’inevitabile, ricevendo come unico ringraziamento una pacca sulle spalle da qualcuno e un insulto da qualcun altro.
E negli ultimi atti del film, mentre Will cerca un albero dove riposare, tornando a fare esattamente quello che stava facendo ventiquattro ore prima, capiamo che quello a cui abbiamo assistito non è il viaggio unico e straordinario di un soldato della prima guerra mondiale, bensì una normalissima giornata di quell’assurda guerra.
Will non è un eroe prescelto, ma un ragazzo normalissimo, capitato per caso a compiere gesta eroiche in un contesto nel quale farlo è divenuta la normalità per chiunque. Chissà quanti altri giovani ragazzi hanno compiuto la stessa impresa quel giorno, magari su altri fronti, e quanti lo rifaranno nei giorni seguenti… Siamo di fronte all’apice della normalizzazione, non solo della morte, ma anche della vita stessa, data per scontata anche di fronte a gesta inimmaginabili in un contesto di pace.
Il soldato si siede all’ombra di un albero a riposare, in attesa della prossima missione, inconsapevole dell’enormità delle sue gesta, privato non solo del suo migliore amico, ma anche della capacità di poter esser fiero di sé stesso.
Con questo finale, Sam Mendes ci sbatte in faccia la routine della prima guerra mondiale, facendoci tremare di fronte al pensiero di un’altra giornata vissuta in quel modo, e poi un’altra e un’altra ancora, in una spirale di morte e resilienza che alla fine ti priverà della normalità del tuo essere. Perché da una guerra del genere non si torna mai davvero a casa, nemmeno sopravvivendo fino all’ultimo giorno.
1917 è un film intenso, che colpisce allo stomaco con la sua realtà. Una glorificazione dell’eroismo di uomini comuni in situazioni più grandi di loro, ma anche una denuncia sulla conseguenza più brutta del divenire eroi in questo modo: l’accettazione della sofferenza e della morte come colonna portante della propria esistenza al posto della pace del quotidiano. E questa è forse una condanna peggiore della morte stessa.
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2 pensieri su “1917 – La normalizzazione della morte”