Il mio viaggio da narratore – Come tutto ha avuto inizio

Il-Gigante-di-Ferro

Salve Viandanti, e bentornati nella mia Locanda.

Come accennato nella mia presentazione, quando ho aperto questo portale, lo feci con la duplice intenzione di condividere e raccontare il mio viaggio nella narratologia, allo scopo di apprendere e fare miei gli strumenti necessari a potermi un giorno trasformare in un narratore. Finora però, mi sono sempre limitato alla condivisione di riflessioni e pensieri maturati durante i miei studi, trattando opere o concetti ben precisi, ed esponendovi la mia visione; senza mai raccontarvi nello specifico quale sia la strada che sto percorrendo e il come lo stia facendo. Per cui, ho deciso che oggi è il giorno giusto per iniziare a tener fede anche a questa seconda parte del mio intento, in quanto senza entrambe le facce della moneta non riuscirei a raggiungere il mio scopo.

Dunque inizia oggi, con questo primo “capitolo”, la condivisione delle mie esperienze verso la maturazione della mia figura di narratore.

Ma rallentiamo un attimo, facciamo un passo indietro e partiamo dal principio: dove e quando nasce questo viaggio? Ma specialmente, perché?

IL PRIMO PASSO

Ogni grande viaggio inizia da un piccolo primo passo, e il mio avvenne molto presto, quando ancora non avevo compiuto nemmeno sei anni.

Fino a quel momento il mio rapporto con la narrativa era avvenuto esclusivamente attraverso uno schermo. Non riesco nemmeno a ricordare quale sia stato il primo film che ho visto (anche se ricordo bene il mio primo al cinema, ma questa è un’altra storia), fin da quando ho memoria quest’arte ha sempre fatto parte della mia vita. Mio padre era un collezionista di VHS, e per me la presenza fissa di un film ogni sera prima di andare a letto era la normalità. Dopo cena, la mia famiglia si metteva sul divano e si guardava una storia, senza distinzioni di generi. Non che ci fosse una particolare conoscenza del medium da parte dei miei genitori, semplicemente ci piaceva fare così, nella più spontanea e naturale delle passioni fini a sé stesse.

Potete capire quindi che fin dalla più tenera età mi ero già abituato a ricercare delle storie vere e proprie, e per questo i cartoni animati pensati per i miei coetanei non mi bastarono mai. In me era già nato il bisogno di avere personaggi, vicende e colpi di scena a cullarmi in mondi nuovi ed esistenti solo grazie alla fantasia umana; e già di per se, tutto questo aveva in qualche modo creato il terreno su cui coltivare il futuro me.

Poi però, un giorno accadde qualcosa che complicò e ampliò questa mia passione, alimentando quella flebile fiammella nel petto di un bambino, trasformandola in un incendio che non sarei più stato in grado di spegnere.

Ero in prima elementare, e avevo da poco imparato a leggere, quando durante una lezione entrò nella nostra classe una signora di cui non riesco a ricordare le fattezze, ma che nella mia memoria fanciullesca spingeva un carrellino vecchio e cigolante verso la cattedra. Quest’ultimo conteneva al suo interno ventuno libri, uno esatto per ogni bambino della mia classe. A quanto pare, la mia insegnante aveva trovato un accordo con la biblioteca della nostra città, ottenendo in prestito per tutto l’anno scolastico quei libri, così da spronare nella nostra classe la passione verso la lettura. Il programma era semplice: sceglievi un libro, lo leggevi, e una volta finito lo riportavi a scuola per scambiarlo con quello di un altro bambino.

Copertina il gigante di ferro

Il primo che mi capitò fu il gigante di ferro. Ricordo di essere stato tanto curioso per quella novità, che iniziai a leggerlo prima ancora di uscire da scuola, durante la lezione, e non riuscì a smettere più. Quella notte continuai a leggere fino ad addormentarmi con il libro in mano, esasperato dalla lentezza con cui scorrevo le pagine a causa della mia scarsa pratica con la lettura. Due gironi dopo riportai a scuola il libro, con parecchia soddisfazione della mia insegnante. Naturalmente mi toccò aspettare parecchio che qualche mio compagno di classe, tutti molto più lenti, portasse indietro il proprio. Prima della fine dell’anno comunque, avevo già finito ognuno dei ventuno libri, e la mia fame non era sazia.

Fu l’inizio della fine. Da quel giorno mi resi conto di quanto davvero mi piacesse la narrativa, ma specialmente, capii che non c’erano limiti che una storia non potesse raggiungere e superare.

 

VIVERE E NARRARE STORIE

I film e i libri furono quindi i combustibili che alimentarono la mia passione per la scoperta della narrativa, e per l’apprezzamento delle belle storie. Paradossalmente però, non furono loro a far nascere in me la necessità di raccontare, o meglio, non furono loro a farmene rendere conto; bensì fu un videogioco.

Anche quest’ultimo medium arrivò, come per il cinema, dai miei genitori, e anche questa volta in maniera totalmente spontanea e inconsapevole.  I videogiochi hanno sempre fatto parte della mia vita, e il ricordo più vecchio che ho in cui impugnavo un joystick tra le mani risale a quando avevo quattro anni, forse meno. Vi ho già parlato in un precedente articolo di quanto reputi potente il medium videoludico per raccontare storie, eppure per molto tempo questa fu una passione completamente slegata da quella della narrativa. Le storie dei videogiochi a cui avevo accesso erano delle più semplici e banali: salva la principessa dal drago, abbatti gli alieni, affronta i criminali, fai le gare con le macchine… tutte trame che non riuscivano proprio a catturare un bambino abituato a romanzi e cinema hollywoodiano. Nel duemila però, accadde l’irreparabile: mio padre mi regalò la mia prima playstation, e un mio amico mi prestò un vecchio gioco del 98, chiamato metal gear solid. Se non conoscete questo capolavoro, allora non c’è modo in cui io possa raccontarvi la sua storia, credetemi. Vi basti sapere che il suo creatore, Hideo Kojima, ad oggi si è guadagnato il rispetto di mezza Hollywood per le sue sceneggiature e per la sua genialità, pur non avendo mai lavorato al di fuori del campo dei videogiochi.

A dieci/undici anni, mi ritrovai tra le mani una storia incredibile, che parlava di spionaggio, deterrenza nucleare, amicizia e drammi familiari, sacrificio e fantapolitica. Trovai personaggi in grado di rapire la mia anima, dialoghi da brividi, colpi di scena che hanno sconvolto la mia infanzia e momenti in grado di commuovermi per la loro potenza emotiva. Metal gear solid fu la prima storia che, raggiunto il finale, mi fece rimanere ammutolito per ore, a riflettere su quello che avevo appena visto e quale fosse il suo significato. Ricordo bene quel giorno, perché fu il giorno in cui mi resi conto di un’esigenza e una volontà che fino a quel momento erano rimaste nascoste nel mio subconscio e che avevo maturato e messo in pratica senza però rendermene conto: avrei voluto essere io a raccontare quella storia. Io volevo creare storie in grado di far vivere alle persone le stesse emozioni, ed altre ancora. Volevo, insomma, diventare un narratore come Hideo Kojima.

metal gear solid cover

Per anni, dopo quel giorno, la mia mente ha partorito idee e storie di ogni sorta e genere. Dopo essermi accorto che crearle mi piaceva tanto quanto viverle, nacque in me la consapevolezza che un giorno sarei diventato un narratore. Non si tratta di arroganza, badate bene; semplicemente l’ho sempre vista come una conseguenza naturale del mio essere. La mia testa esplode di avvenimenti che affollano la mia mente in ogni attimo della giornata, e devo per forza trovare modi per farli uscire e fare spazio alle storie nuove che stanno per arrivare. In buona parte ho imparato a sfogare questa mia necessità “giocando” nella vita di tutti i giorni, raccontando a voce o vivendo esperienze; ma ho sempre saputo che tutto questo non basta e mai basterà. Raccontare storie è un’esigenza che vivo e che devo colmare, e per questo ho sempre visto il mio diventare un narratore come l’inevitabile conseguenza del mio essere, nulla di più. Senza fretta, e senza pretese di successo, ma so che accadrà.

 

LA DOMANDA FONDAMENTALE

Qualche anno fa, durante l’ennesima giornata passata a fare un lavoro poco entusiasmante, mi porsi una domanda: perché se dico in giro che voglio fare lo scrittore o lo sceneggiatore, tutti mi guardano scettici e iniziano a precisarmi quanto ciò sia difficile, parlandomi come si fa con un bambino che dice di voler diventare astronauta; mentre se dico di voler diventare il CEO di una grande azienda vengo elogiato per l’ambizione e per il duro percorso che sto affrontando?

Davvero, è una cosa che proprio non riuscivo a spiegarmi. Voglio dire, diventare CEO di una grande azienda è un lavoro difficile, che richiede studio, dedizione, abilità e tanto lavoro. Tutte caratteristiche necessarie anche per diventare uno storyteller affermato. Quindi perché una delle due mansioni viene vista come un sogno irrealizzabile da rincorrere senza troppe aspettative, mentre l’altra come una carriera? La risposta a cui sono giunto sta proprio in quest’ultima domanda: diventare uno scrittore non viene visto come una carriera.

Per molti lo scrittore è un artista, spinto solo dall’ispirazione e dalla creatività, e questo lo pone nella situazione in cui, una volta finita la parte creativa, il suo successo non dipende tanto da lui, quanto più dagli altri che dovranno sceglierlo: editori, agenti letterari, registi, pubblico…

Mi resi conto che se volevo davvero diventare un narratore, e non solo essere uno dei tanti che ci provano ogni anno, allora dovevo affrontare la questione come si affronterebbe una vera e propria carriera. Dovevo approcciarmi alla narratologia come un aspirante CEO si approccia al settore in cui vuole lavorare. Dovevo studiare un piano di studio, periodi di prova, sperimentazione, ricerca e ancora studio.

Capito questa cosa, circa quattro anni fa decisi di iniziare da zero questa mia carriera, tornando a essere uno studente (figurativamente e di fatto), approcciandomi al raggiungimento del mio obiettivo osservando la strada che avevo di fronte, e tracciando un itinerario che durerà anni. Un percorso rigido nella meta da raggiungere, ma flessibile nel percorrerlo.

Ho abbandonato le vesti tipiche dello scrittore chino su una scrivania, intento a scrivere alla luce di una candela consumata, che cerca l’ispirazione nella teologia; preferendo invece indossare un mantello da viandante, viaggiatore di mondi ed esperienze, alla ricerca della maturazione e della formazione come narratore.

A questo scopo ho iniziato a studiare le tecniche della narratologia; ad analizzare le opere che ho la fortuna di vivere, come film, libri o videogiochi; a conoscere la storia e le abitudini dei più grandi narratori di oggi e di ieri; ma anche a conoscere il settore, la sua burocrazia e il su funzionamento, il suo marketing e le sue strutture.

Viaggiare, fare esperienze e conoscere persone si è rivelato fondamentale per scovare e fare miei tutti gli attrezzi necessari a scolpire colui che voglio diventare. Tutto questo, però, senza mai dimenticare lo scopo per cui ho iniziato.

Per cui eccomi qui, quattro anni dopo, ancora in viaggio ma con una Locanda itinerante in cui posso e voglio condividere questo mio percorso con altri viandanti come me, alla ricerca di riscontri, pareri e, naturalmente, di storie.

Per oggi è tutto, Viandanti, buon viaggio e alla prossima storia.

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